Nel Venerdì Santo contempliamo il mistero più profondo della fede cristiana: la Passione e la morte di Gesù. In questo lungo racconto, Giovanni ci conduce passo dopo passo dentro la via del dolore, ma anche dentro la logica disarmante di un amore che non si difende, che non si impone, ma si offre. Gesù sa tutto ciò che gli accadrà, eppure va incontro liberamente al suo destino, fedele fino alla fine alla volontà del Padre e all’amore per l’umanità.
La regalità di Gesù non è fatta di troni o eserciti, ma di corona di spine, silenzio e perdono. È un re che regna dalla croce, che mostra la potenza della verità, della mitezza, della fedeltà. Le sue parole a Pilato – “Il mio regno non è di questo mondo” – rivelano che c’è una via diversa da quella del dominio: è la via della verità, che passa per la croce e si apre alla risurrezione.
Nel momento più drammatico, Gesù non si ripiega su di sé. Dona tutto: anche sua madre al discepolo, anche il perdono ai carnefici, anche il suo spirito al Padre. E alla fine esclama: “È compiuto!”. Non un grido di sconfitta, ma il sigillo di una vita vissuta pienamente per amore. La croce diventa così l’altare del compimento, il trono del Re crocifisso, la porta spalancata sulla speranza.
Contemplare oggi la croce non è un esercizio di pietismo, ma una chiamata radicale: a lasciarci amare fino in fondo e a imparare ad amare con lo stesso stile, fino all’estremo, senza calcoli, senza ritorni. Perché solo un amore così salva il mondo.